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Sempre più spesso i nostri Tribunali sono chiamati a pronunciarsi sul riconoscimento dello status di figlio, in particolare nei confronti del padre biologico.
Al fine di comprendere meglio la questione è necessario preliminarmente ripercorrere la disciplina relativa allo stato di figlio, contenuta nel Libro I, Titolo VII, del codice civile, distinguendo a seconda che si parli di figlio nato dentro o fuori dal matrimonio (noti un tempo come figli legittimi e figli naturali).
Partendo proprio dai figli nati da genitori coniugati, l’art. 231 c.c. prevede come regola generale che “Il marito è padre del figlio concepito o nato durante il matrimonio”.
Al fine di superare detta presunzione gli articoli 243 bis e ss. c.c. disciplinano il c.d. disconoscimento di paternità, mediante il quale il marito, la madre e il figlio possono provare che non sussista il rapporto di filiazione.
Per quanto concerne invece i figli nati fuori dal matrimonio, gli artt. 250 e ss. c.c. prevedono la possibilità per i due genitori di procedere, congiuntamente o separatamente, al riconoscimento all’atto di nascita o successivamente, mediante dichiarazione dinnanzi all’ufficiale dello stato civile.
Detta dichiarazione può essere, tuttavia, impugnata per difetto di veridicità ai sensi degli articoli 263 c.c. e seguenti. Legittimati all’impugnazione saranno l’autore stesso del riconoscimento, colui che è stato riconosciuto o chiunque altro vi abbia interesse. L’azione è imprescrittibile solo riguardo al figlio, dovendo di contro essere esercitata entro i termini stringenti di cui all’art. 263 c.c., da parte degli altri soggetti.
La dichiarazione di paternità o maternità può inoltre avvenire giudizialmente ai sensi degli articoli 269 c.c. e ss. su domanda dello stesso figlio o dalla madre, se minore di 14 anni, o ancora dal tutore, qualora il figlio sia interdetto, previa autorizzazione da parte del giudice tutelare.
Proprio la mancanza di termini prescrizionali per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità su domanda del figlio sono stati oggetto di una recentissima pronuncia della Suprema Corte (sez. I^, sentenza del 29 novembre 2016, n°24292).
La vicenda trae origine dal ricorso promosso da un padre biologico avverso la sentenza con cui la Corte d’appello di Torino aveva accolto la domanda della figlia di veder dichiarata la sua paternità, nonostante fossero decorsi oltre 40 anni dal momento in cui la stessa era venuta a conoscenza della vera identità del padre, dichiarando manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 270 c.c. proposta dal padre.
Nella specie, il padre lamentava l’incostituzionalità dell’art. 270 c.c. a causa della mancata previsione di un termine prescrizionale per l’esercizio della relativa azione da parte della figlia. Ad avviso del padre, infatti, permettere ad una persona, che conosce da 40 anni la vera identità del padre naturale e che ha vissuto tutta la vita chiamando padre il marito della madre, avrebbe comportato il sacrificio ingiustificato del “…diritto del presunto padre alla stabilità dei rapporti familiari maturati nel corso del tempo…” imponendogli così “…un accertamento coattivo del rapporto di filiazione che l’interessata avrebbe potuto richiedere decenni prima”.
La Corte, tuttavia, conferma la sentenza impugnata ritenendo prevalente il diritto della figlia alla c.d. “verità biologica” della procreazione, che costituisce una delle componenti più importanti del diritto all’identità personale, diritto inviolabile della persona tutelato tanto dall’art. 2 della Costituzione quanto dall’art. 8 CEDU. Ad avviso della Corte, infatti, conoscere la vera identità dei propri genitori biologici è “una componente essenziale dell’interesse della persona che si traduce nella esigenza di garantire ad essa il diritto alla propria identità e, segnatamente, alla affermazione di un rapporto di filiazione veridico”. (Corte cost. n. 7/2012, n. 322/2011, n. 216 e 112/1997).
Ad avviso della Corte, inoltre, la decisione di introdurre un termine di prescrizione o di decadenza per la dichiarazione di paternità non potrebbe essere assunta da un Tribunale, spettando unicamente al Legislatore.
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