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La Suprema Corte di Cassazione, sez. III^ civile, con la recente ordinanza n°3904/2025 del 27 settembre 2024, depositata in cancelleria il 16 febbraio 2025, offre preziosi chiarimenti circa la sussistenza di una presunzione del danno morale subito dai membri della c.d. famiglia nucleare a seguito della morte del coniugi, genitore, figlio o fratelle), e sulla ripartizione dell’onere probatorio tra danneggiante e danneggiati.

 

Il caso.

La moglie e i figli del de cuius convenivano in giudizio una struttura sanitaria per il risarcimento dei danni conseguenti alla morte del rispettivo coniuge e padre, conseguente ad un caso di malasanità. L’uomo, a seguito di  un intervento, aveva infatti contratto un’infezione della ferita chirurgica, che lo aveva condotto, nonostante successivi tre interventi, alla morte.

In primo grado il Tribunale di Ravenna rigettava tuttavia le domande attoree.

I familiari proponevano appello dinnanzi alla Corte d’Appello di Bologna, la quale tuttavia riconosceva il danno in favore della sola moglie, rigettando erroneamente l’analoga domanda presentata dai figli non avendo gli stessi offerto “…specifica allegazione del concreto atteggiarsi della relazione affettiva con il padre”, necessaria, ad avviso dei giudizio, non essendo i più conviventi con il genitore al momento della morte.

 

La decisione della Suprema Corte

Di diverso avviso i giudici di Piazza Cavour che, in accoglimento dell’unico motivo di gravame, riconoscono il diritto anche dei figli, ancorchè non più conviventi, al risarcimento del danno morale conseguente alla perdita parentale.

In particolare, la Suprema Corte, condivisibilmente chiarisce che:

  • deve presumersi una sofferenza morale in capo alla c.d. “famiglia nucleare” in conseguenza dell’uccisione dei genitori, del coniuge, dei figli o dei fratelli”;
  • la convivenza e/o la distanza tra la vittima e il superstite non può considerarsi circostanza incidente sull’an, potendo essere valutata unicamente ai fini del quantum debeatur;
  • grava sul danneggiato l’onere di provare “che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo” (così anche Cass. sez. 3, 30 agosto 2022 n. 25541 e Cass. sez. 3, ord. 4 marzo 2024 n. 5769).

 

La Suprema Corte di Cassazione, sez. I^ civile, con la recente ordinanza n°234/2025 depositata in cancelleria in data 7 gennaio 2025, ha chiarito quali siano i presupposti per la concessione dell’assegno separatizio, evidenziando analogie e differenze rispetto ai presupposti dell’assegno divorzile.

I fatti di cui è causa e i due gradi di giudizio di merito.

Il Tribunale civile di Napoli, dichiarava la separazione dei coniugi addebitandola al marito, rigettando analoga richiesta di addebito mossa da quest’ultimo in danno della moglie, nonché ponendo a carico del marito un gravoso assegno per il mantenimento dei figli e uno separatizio in favore della moglie, a cui veniva altresì assegnata la casa familiare.

Avverso la sentenza del  giudice campano ricorreva in appello il marito, contestando il diritto all’assegno separatizio della moglie e la sua quantificazione, anche in considerazione della mancata prova degli asseriti redditi che lo stesso avrebbe percepito dal proprio lavoro autonomo.

La Corte d’Appello di Napoli rigetta tuttavia il gravame ritenendo:

  • che dalla prova escussa in primo grado non emergono ragioni per addebitare la separazione alla moglie;
  • che il reddito del A.A. non solo derivante da lavoro dipendente ma anche da lavoro autonomo è “certamente capiente” rispetto all’assegno, avendo egli oltretutto ereditato dalla madre la casa di piazza (Omissis) che pur se aggravata da un “temporaneo diritto abitazione in favore dei figli” gli consentirebbe agevolmente se venduta di fare fronte per molti anni a venire degli oneri di mantenimento.

Il ricorso per cassazione

Il coniuge decideva pertanto di ricorrere per cassazione avverso la predetta sentenza lamentando:

  • con il primo motivo “la violazione o falsa applicazione dell’art. 156 c.c., comma 1, essendosi la Corte territoriale limitata ad affermare che la moglie ha redditi assai modesti, trascurando però che l’assegno di mantenimento nella separazione -contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale – non mira a mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma assicura solo un contributo al coniuge economicamente più debole, sempre che, però, lo stesso si sia attivato per la ricerca di un lavoro, e non sia invece rimasto al riguardo del tutto inerte; in tal modo, la moglie ha aggravato ingiustificatamente la posizione debitoria del ricorrente”;
  • con il secondo motivo “il travisamento della prova in relazione all’art 360 n. 5 c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 115 e 132 comma 4 c.p.c. Il ricorrente deduce che la Corte d’Appello ha evidentemente travisato la prova circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti ed in particolare non ha valutato la relazione di consulenza tecnica del dott. C.C. e la documentazione fiscale allegata depositata dal ricorrente nel giudizio di primo grado, affermando sulla base di semplici presunzioni e considerazioni soggettive che esso ricorrente avrebbe un reddito fortemente superiore a quanto emerge dagli atti di causa, non valutando il documentato peggioramento delle sue condizioni economiche patrimoniali, né la effettiva consistenza del suo reddito che è pari ad Euro 1.715,00 mensili; lamenta che il giudice d’appello abbia omesso di valutare la situazione di sovraindebitamento dando valore al tenore di vita passato dei coniugi e allo svolgimento di ulteriore attività lavorativa che non è stata provata”;
  • con il terzo motivo “la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., e la nullità della sentenza in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in quanto il giudice territoriale non si è pronunciato sul motivo di appello relativo all’addebito della separazione posto a carico di esso ricorrente”.

La decisione della Suprema Corte

La Suprema Corte, accoglie tutte e tre le doglianze alla luce dei seguenti condivisibili motivi.

Quanto al primo motivo, la Suprema Corte:

  • censura l’operato della Corte territoriale che, nel valutare la sussistenza dei presupposti per riconoscere il diritto della moglie a percepire un assegno separatizio, si era “limitata ad affermare che la moglie al momento della separazione non lavorava e che ha diritto di conservare l’elevato tenore di vita mantenuto in costanza di convivenza, senza valutare se ella sia in possesso di risorse economiche tra le quali rileva certamente, oltre che l’eventuale patrimonio, anche la capacità lavorativa, da valutarsi in concreto e non in astratto (Cass. n. 24049 del 06/09/2021)”;
  • chiarisce che:
    • il diritto all’assegno di mantenimento è quindi fondato sulla persistenza del dovere di assistenza materiale fintanto che il matrimonio non è sciolto; il principio di parità richiede che tale sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale (Cass. n. 34728 del 12/12/2023 in motivazione)”.
    • l’accertamento del diritto ad esser mantenuti dall’altro coniuge a seguito di separazione non è scisso dalla valutazione che la solidarietà presuppone un rapporto paritario e di reciproca lealtà, incompatibile con comportamenti parassitari diretti a trarre ingiustificati vantaggi dal coniuge separato”;
    • “…anche nelle relazioni familiari valga il principio di autoresponsabilità che è strettamente correlato alla solidarietà; tutte le comunità solidali presuppongono che ciascuno contribuisca al benessere comune secondo le proprie capacità e che nessuno si sottragga ai propri doveri”;
    • ferma la differenza tra assegno di divorzio e assegno di separazione, vi sono alcuni tratti comuni tra i due istituti e tra questi il presupposto che il richiedente sia privo di risorse adeguate”, con particolare riferimento al caso in cui “il richiedente sia dotato di concreta e attuale capacità lavorativa e non la metta a frutto senza giustificato motivo la assenza di adeguati redditi propri non può considerarsi un fatto oggettivo involontario ma una scelta addebitabile allo stesso interessato.
  • ritenendo che “…nella specie la Corte d’Appello di Napoli non ha fatto buon governo di questi principi nell’omettere qualsivoglia indagine sulle capacità lavorative concrete della richiedente assegno e non indagando sulla possibilità che la moglie si procuri redditi diversi, ad esempio da patrimonio, limitandosi ad affermare che la stessa al momento della separazione non lavorava.

Quanto al secondo motivo, la Suprema Corte, censura altresì l’operato del giudice di secondo grado ritenendo solo formalmente apparente la motivazione circa gli ulteriori redditi da lavoro autonomo del marito in quanto a fronte delle contestazioni dell’interessato il quale ha documentato il suo reddito da lavoro dipendente anche con una consulenza di parte, si è limitata a osservare che “come documenta la difesa dell’appellata” il reddito del A.A. è tuttora costituito non solo da proventi di lavoro o dipendente ma anche da introiti da lavoro autonomo ed è un importo complessivo lordo “certamente capiente” per il pagamento di cui è onerato” senza tuttavia offrire contezza delle relative ragioni, e in particolare:

  • senza specificare “né che tipo di lavoro autonomo svolge, su quali prove si fonda l’accertamento dello svolgimento di attività libero professionale e a quanto ammonta il reddito che ne ricaverebbe”;
  • valutando “…quale disponibilità economica l’essere proprietario della casa coniugale assegnata alla moglie” nonostante la predetta abitazione sia stata assegnata alla moglie in sede di separazione, con conseguente incidenza sulla “concreta appetibilità sul mercato di un bene con tale vincolo”.

Gli Ermellini accolgono da ultimo anche la terza censura rilevando che “la Corte d’Appello, limitandosi ad esaminare la domanda di addebito alla moglie, ha omesso effettivamente di pronunciarsi per intero sul motivo di appello, non cogliendone la effettiva portata” e ciò in quanto, nonostante il marito non abbia riportato nelle conclusioni dell’atto di appello la richiesta di addebito, “…tuttavia la parte dell’atto d’appello che egli trascrive è più che sufficiente a fare ritenere che egli abbia proposto detta questione, rendendo evidente che il suo obiettivo non era quella di ottenere una sentenza di addebito reciproco bensì una sentenza di addebito in via esclusiva alla moglie, e ponendo quindi una questione non adeguatamente esaminata dalla Corte d’Appello la quale si è limitata ad affermare che i litigi di cui aveva riferito il teste Stara non avevano avuto incidenza casuale sulla fine del rapporto e a richiamare, quanto alla incidenza causale dei comportamenti del A.A. una valutazione, resa da una teste nel giudizio canonico, e non fatti oggettivi. Si tratta quindi di una valutazione parziale che non tiene conto della complessiva esposizione del motivo di appello”.

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kate-separatedLa Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza ordinanza n°16404 del 19 giugno 2019, ha chiarito che, con riferimento al rimborso delle spese di mantenimento del minore, “…che ove ad esse abbia provveduto integralmente uno soltanto di suoi genitori (come pacificamente accaduto nella specie), a questi spetti il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota relativa al genitore inadempiente, secondo le regole generali sul rapporto fra condebitori solidali: come si desume, in particolare, dall’art. 148 c.c. (richiamato dall’art. 261 c.c., entrambi nei rispettivi testi, qui applicabili ratione temporis, vigenti anteriormente al D.Lgs. n. 154 del 2013, entrato in vigore il 7 febbraio 2014), che, prevedendo l’azione giudiziaria contro tale genitore, postula il diritto del genitore adempiente di agire (appunto, in regresso) nei confronti dell’altro (cfr. Cass. n. 15063 del 2000; Cass. n. 10124 del 2004)”.

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